
INTERVISTA DELL'EDITORE ALL'AUTORE DI VERA TRA LE ROCCE
Ciao Marco, com’è nata la storia di Vera tra le rocce?
Per caso, un po’ come nascono sempre le storie. Da un po’ di tempo desideravo ambientare qualcosa nella Val d’Ala di Lanzo, la più centrale, ma non scoccava la scintilla giusta. Per fortuna, una mattina d’estate di qualche anno fa mi portarono a visitare un impervio vallone che non conoscevo e per me fu l’inizio di una ricerca: le pietre di quella montagna evocavano ricordi di incontri e parole, immagini di tragitti su sentieri abbandonati. La voglia di scoprire altro mi portò in alto, fino a un luogo dove si era schiantato un aereo della seconda guerra, e mi parve che la risalita in montagna rappresentasse una finestra sulla storia e allo stesso tempo il percorso che ogni uomo o donna deve compiere nella sua vita, districandosi tra le difficoltà che ogni giorno ci troviamo di fronte. Un viaggio tra rocce e capre che in realtà è metafora del nostro cammino quotidiano.
Il mondo visto con gli occhi di una ragazza. Quanto ti risulta diverso e più o meno difficile immedesimarti in una donna? (Come del resto hai già fatto per Il mistero della montagna)
Per me non è mai stato facile immedesimarmi in una donna. Non so come spiegarlo: il mondo è lo stesso, ovviamente, e lo viviamo con le medesime modalità, ma lo guardiamo con occhi diversi e lo percepiamo con una sensibilità diversa. Secondo me il rischio più grande che si corre a scrivere di una donna è quello di proiettare i desideri e le sensazioni maschili sulla donna, che è un po’ quello che fa un certo tipo di marketing pubblicitario quando propone con prepotenza un modello di femminilità che è asservito al piacere dell’uomo e non il modello di donna libera in quanto tale. È un discorso complesso, che probabilmente non si può trattare in due righe. Eppure per scrivere di Vera non ho fatto altro che guardarmi profondamente dentro, rovistando tra i ricordi delle donne che ho frequentato nella mia vita e quelle che ancora frequento, in famiglia o tra le amicizie. Ho attinto dalle loro esperienze, ma anche dal mio modo maschile di rapportarmi con esse.
C’è un motivo per cui la protagonista si chiama Vera?
Sì, il motivo è alla base del libro ed è tutto contenuto nel gioco di parole del titolo: Vera e “vera”. Vera è il nome, ma è vera, è anche ciò che lei vuole essere, o meglio, ciò che si sforza di essere. La sua è la storia di una ragazza in crescita e la ricerca più profonda che qualunque adolescente può intraprendere è quella per capire se stesso e per affermare il proprio spazio in mezzo agli altri. Ma l’adolescenza non è un’età che termina a una scadenza ben precisa: può darsi si protragga per molti anni anche nell’età adulta ed è esattamente quanto succede alla nostra Vera, che alla soglia dei quaranta si ritrova ancora a faticare per ritagliarsi una vita, sempre più convinta che il suo regno sia in alto, tra le rocce. Sarà poi così?
Qual è il personaggio secondario che hai amato di più?
Inutile negarlo, Findalo rimane il propulsore di tutte le mie storie. Forse perché in lui sopravvive una parte di me cocciutamente attaccata all’infanzia, perché è quello bislacco, che racconta storie stupide e preferisce la compagnia dei cani e dei bambini a quella delle persone adulte. Findalo vive di musica e magia, percepisce lo scorrere del tempo eppure ne sembra immune, sospeso tra due mondi, come direbbe Aurora (Il mistero della montagna).
Tuttavia parla dritto al cuore ed è capace di intuizioni che sono quasi delle profezie: Vera, come i protagonisti degli altri libri, non lo prende sul serio perché non riesce a capire il suo linguaggio arcaico. Servirà un altro personaggio, il vecchio Garibaldi (Lo sguardo olte le vette), a fornirle la chiave di lettura giusta e solo dopo il suo ingresso sulla scena i discorsi di Findalo acquisiranno davvero senso. In fondo è così no? Il mito a una prima lettura sembra semplicemente una favola, ma quando incontriamo qualcuno capace di sviscerarlo adeguatamente scopriamo che oltre la storia c’è molto di più: un linguaggio universale.
A me ha catturato “la Strega”, la mamma di Vera, una donna dura, senza tenerezza, che conosce le figlie e a modo suo le aiuta e le ama. Ci vuoi parlare di questa figura che a mio parere hai delineato davvero bene?
Anche Anna a suo modo è una creatura fuori dal tempo, ultima rappresentante di un mondo scomparso. È sicuramente una donna rozza, senza cultura, egocentrica e che non ha voglia di crescere, ma molto spesso sono proprio queste persone, potremmo dire di basso profilo, a rimanere più di altre attaccate alle loro radici. Mi viene spesso in mente che mia nonna materna non era particolarmente affettuosa nei confronti di figli e nipoti, non si lasciava andare a facili smancerie, eppure riusciva ugualmente a trasmettere qualcosa. È una questione di costume: noi siamo sempre più condizionati a essere convinti che esista un solo modo (potremmo dire televisivo o teatrale) di esprimere i sentimenti, ma non è così. Mauro Corona in uno dei suoi libri più vecchi ricorda che nel dialetto del suo paese non esiste la traduzione letterale dell’affermazione “ti amo”. Se ci pensiamo anche in piemontese è una frase che suona male, insolita. Ciò ovviamente non significa che i nostri vecchi, incapaci di destreggiarsi con la lingua italiana, non fossero in grado di esprimere quanto provavano, soltanto che facevano ricorso a modalità differenti. Anna poi è una donna decisa ma ottusa, che ragiona per categorie rigidamente definite e dà importanza soltanto a ciò che la riguarda, perciò a volte finisce per far più male che bene alle sue figlie. Sarà una parte importante della vita di Vera e lei dovrà trovare il modo di farci i conti, prima o poi. Forse vale per ciascuno di noi.
La montagna insegna la solitudine, necessaria per incontrare se stessi, ma a volte non basta. Il contatto umano e la condivisione insegnano a relazionarsi, quanto la tecnologia rende effimero e solo un miraggio tutto ciò?
La tecnologia ha i suoi vantaggi, inutile negarlo. Il mondo si è rimpicciolito da quando abbiamo internet sui nostri telefoni portatili. La gente può rimanere in contatto anche se è chiusa dentro casa (vedi i recenti divieti a cui siamo stati sottoposti) e può addirittura lavorare senza muoversi dalla propria residenza. Per quanto mi riguarda è un grande traguardo.
Tuttavia rimane un palliativo, un surrogato, una relazione con intermediario, soggetta a un sacco di interferenze.
Quando è cominciata l’emergenza legata alla pandemia ho avuto immediatamente l’impressione che il problema principale che bisognava affrontare, la cui onda lunga credo non comprenderemo appieno ancora per un bel pezzo, sarebbe stato l’isolamento dei nostri figli. Lasciamo stare le questioni legate alla didattica, già di per sé notevoli, mettiamo da parte per un attimo anche il discorso dell’attendibilità delle informazioni che si possono trovare sul web, sebbene non sia un particolare trascurabile. Quello a cui mi riferisco è la chiusura, l’interruzione delle relazioni tra coetanei, l’impossibilità di un contatto fisico, di guardarsi negli occhi, di capire l’intenzione, di valutare la capacità di muoversi nello spazio. Tutte cose che durante l’adolescenza diventano fondamentali per la formazione del carattere.
Come Vera imparerà a sue spese, le relazioni umane sono importanti e chiudersi nella solitudine non sempre è salutare. Ci vuole una certa disciplina e bisogna conoscere molto bene se stessi. In una certa misura queste relazioni possono essere portate avanti anche a distanza: il telefono e la radio sono stati per molti decenni strumento di contatto tra persone lontane. Ma non basta: per sentirmi vivo ho bisogno di un abbraccio, di un sorriso in diretta, di una battuta o di un rimprovero. Si chiama calore e in Natura quando il calore se ne va, qualunque cosa muore.
Quale messaggio vuoi lasciare con questo romanzo?
Ci sono molti messaggi nel mio romanzo. Uno, probabilmente il più importante, è legato alla montagna e al fatto che per il suo benessere è necessario ridare valore al concetto di “comunità”.
Ultimamente sento dire spesso che non è possibile salvarsi da soli ed è una frase che in bocca a politici e burocrati mi ispira sospetto. Tuttavia fondamentalmente la penso così anche io: in questa epoca di estremo nichilismo il ritorno alla Natura selvaggia è spesso visto come un percorso di allontanamento individuale dagli orrori della società alienata. Si sogna un’esistenza into the wild, equilibrata, pura e carica di libertà, abbandonando orpelli e vincoli di una vita frenetica e sporca, che arriva al punto di farci ammalare.
Ma un conto è sapercela fare da soli, essere pratici e autosufficienti, un conto è decidere che non c’è più nulla di importante oltre noi stessi. È davvero così? Siamo poi capaci di bastare a noi stessi? Sarà un bene per noi? E per la montagna? Per la Natura?
Persino Findalo alla fine sarà costretto a porsi delle domande.
L’uomo è parte del mondo e non può tirarsene fuori, in nessuna circostanza, e questa è l’unica affermazione di cui mi sento davvero sicuro. Le storie hanno senso soltanto finché è possibile raccontarle a qualcuno, altrimenti lo stesso scrivere diventa vano.
Per preservarla come l’amiamo, alla nostra montagna non servono eremiti e uomini selvaggi, ma comunità di persone che la mantengano viva, curata e sorvegliata, ricordando il proprio passato con uno sguardo attento al futuro, senza retorica o propaganda.
Un libro coinvolgente che porta a riflettere sulle scelte, le opportunità, i rapporti umani, la ricerca di sé e come sia importante il comportamento che ognuno adotta nei confronti gli altri a qualsiasi piano esso si trovi, dal più superficiale a quello più profondo.
Ciao Marco, com’è nata la storia di Vera tra le rocce?
Per caso, un po’ come nascono sempre le storie. Da un po’ di tempo desideravo ambientare qualcosa nella Val d’Ala di Lanzo, la più centrale, ma non scoccava la scintilla giusta. Per fortuna, una mattina d’estate di qualche anno fa mi portarono a visitare un impervio vallone che non conoscevo e per me fu l’inizio di una ricerca: le pietre di quella montagna evocavano ricordi di incontri e parole, immagini di tragitti su sentieri abbandonati. La voglia di scoprire altro mi portò in alto, fino a un luogo dove si era schiantato un aereo della seconda guerra, e mi parve che la risalita in montagna rappresentasse una finestra sulla storia e allo stesso tempo il percorso che ogni uomo o donna deve compiere nella sua vita, districandosi tra le difficoltà che ogni giorno ci troviamo di fronte. Un viaggio tra rocce e capre che in realtà è metafora del nostro cammino quotidiano.
Il mondo visto con gli occhi di una ragazza. Quanto ti risulta diverso e più o meno difficile immedesimarti in una donna? (Come del resto hai già fatto per Il mistero della montagna)
Per me non è mai stato facile immedesimarmi in una donna. Non so come spiegarlo: il mondo è lo stesso, ovviamente, e lo viviamo con le medesime modalità, ma lo guardiamo con occhi diversi e lo percepiamo con una sensibilità diversa. Secondo me il rischio più grande che si corre a scrivere di una donna è quello di proiettare i desideri e le sensazioni maschili sulla donna, che è un po’ quello che fa un certo tipo di marketing pubblicitario quando propone con prepotenza un modello di femminilità che è asservito al piacere dell’uomo e non il modello di donna libera in quanto tale. È un discorso complesso, che probabilmente non si può trattare in due righe. Eppure per scrivere di Vera non ho fatto altro che guardarmi profondamente dentro, rovistando tra i ricordi delle donne che ho frequentato nella mia vita e quelle che ancora frequento, in famiglia o tra le amicizie. Ho attinto dalle loro esperienze, ma anche dal mio modo maschile di rapportarmi con esse.
C’è un motivo per cui la protagonista si chiama Vera?
Sì, il motivo è alla base del libro ed è tutto contenuto nel gioco di parole del titolo: Vera e “vera”. Vera è il nome, ma è vera, è anche ciò che lei vuole essere, o meglio, ciò che si sforza di essere. La sua è la storia di una ragazza in crescita e la ricerca più profonda che qualunque adolescente può intraprendere è quella per capire se stesso e per affermare il proprio spazio in mezzo agli altri. Ma l’adolescenza non è un’età che termina a una scadenza ben precisa: può darsi si protragga per molti anni anche nell’età adulta ed è esattamente quanto succede alla nostra Vera, che alla soglia dei quaranta si ritrova ancora a faticare per ritagliarsi una vita, sempre più convinta che il suo regno sia in alto, tra le rocce. Sarà poi così?
Qual è il personaggio secondario che hai amato di più?
Inutile negarlo, Findalo rimane il propulsore di tutte le mie storie. Forse perché in lui sopravvive una parte di me cocciutamente attaccata all’infanzia, perché è quello bislacco, che racconta storie stupide e preferisce la compagnia dei cani e dei bambini a quella delle persone adulte. Findalo vive di musica e magia, percepisce lo scorrere del tempo eppure ne sembra immune, sospeso tra due mondi, come direbbe Aurora (Il mistero della montagna).
Tuttavia parla dritto al cuore ed è capace di intuizioni che sono quasi delle profezie: Vera, come i protagonisti degli altri libri, non lo prende sul serio perché non riesce a capire il suo linguaggio arcaico. Servirà un altro personaggio, il vecchio Garibaldi (Lo sguardo olte le vette), a fornirle la chiave di lettura giusta e solo dopo il suo ingresso sulla scena i discorsi di Findalo acquisiranno davvero senso. In fondo è così no? Il mito a una prima lettura sembra semplicemente una favola, ma quando incontriamo qualcuno capace di sviscerarlo adeguatamente scopriamo che oltre la storia c’è molto di più: un linguaggio universale.
A me ha catturato “la Strega”, la mamma di Vera, una donna dura, senza tenerezza, che conosce le figlie e a modo suo le aiuta e le ama. Ci vuoi parlare di questa figura che a mio parere hai delineato davvero bene?
Anche Anna a suo modo è una creatura fuori dal tempo, ultima rappresentante di un mondo scomparso. È sicuramente una donna rozza, senza cultura, egocentrica e che non ha voglia di crescere, ma molto spesso sono proprio queste persone, potremmo dire di basso profilo, a rimanere più di altre attaccate alle loro radici. Mi viene spesso in mente che mia nonna materna non era particolarmente affettuosa nei confronti di figli e nipoti, non si lasciava andare a facili smancerie, eppure riusciva ugualmente a trasmettere qualcosa. È una questione di costume: noi siamo sempre più condizionati a essere convinti che esista un solo modo (potremmo dire televisivo o teatrale) di esprimere i sentimenti, ma non è così. Mauro Corona in uno dei suoi libri più vecchi ricorda che nel dialetto del suo paese non esiste la traduzione letterale dell’affermazione “ti amo”. Se ci pensiamo anche in piemontese è una frase che suona male, insolita. Ciò ovviamente non significa che i nostri vecchi, incapaci di destreggiarsi con la lingua italiana, non fossero in grado di esprimere quanto provavano, soltanto che facevano ricorso a modalità differenti. Anna poi è una donna decisa ma ottusa, che ragiona per categorie rigidamente definite e dà importanza soltanto a ciò che la riguarda, perciò a volte finisce per far più male che bene alle sue figlie. Sarà una parte importante della vita di Vera e lei dovrà trovare il modo di farci i conti, prima o poi. Forse vale per ciascuno di noi.
La montagna insegna la solitudine, necessaria per incontrare se stessi, ma a volte non basta. Il contatto umano e la condivisione insegnano a relazionarsi, quanto la tecnologia rende effimero e solo un miraggio tutto ciò?
La tecnologia ha i suoi vantaggi, inutile negarlo. Il mondo si è rimpicciolito da quando abbiamo internet sui nostri telefoni portatili. La gente può rimanere in contatto anche se è chiusa dentro casa (vedi i recenti divieti a cui siamo stati sottoposti) e può addirittura lavorare senza muoversi dalla propria residenza. Per quanto mi riguarda è un grande traguardo.
Tuttavia rimane un palliativo, un surrogato, una relazione con intermediario, soggetta a un sacco di interferenze.
Quando è cominciata l’emergenza legata alla pandemia ho avuto immediatamente l’impressione che il problema principale che bisognava affrontare, la cui onda lunga credo non comprenderemo appieno ancora per un bel pezzo, sarebbe stato l’isolamento dei nostri figli. Lasciamo stare le questioni legate alla didattica, già di per sé notevoli, mettiamo da parte per un attimo anche il discorso dell’attendibilità delle informazioni che si possono trovare sul web, sebbene non sia un particolare trascurabile. Quello a cui mi riferisco è la chiusura, l’interruzione delle relazioni tra coetanei, l’impossibilità di un contatto fisico, di guardarsi negli occhi, di capire l’intenzione, di valutare la capacità di muoversi nello spazio. Tutte cose che durante l’adolescenza diventano fondamentali per la formazione del carattere.
Come Vera imparerà a sue spese, le relazioni umane sono importanti e chiudersi nella solitudine non sempre è salutare. Ci vuole una certa disciplina e bisogna conoscere molto bene se stessi. In una certa misura queste relazioni possono essere portate avanti anche a distanza: il telefono e la radio sono stati per molti decenni strumento di contatto tra persone lontane. Ma non basta: per sentirmi vivo ho bisogno di un abbraccio, di un sorriso in diretta, di una battuta o di un rimprovero. Si chiama calore e in Natura quando il calore se ne va, qualunque cosa muore.
Quale messaggio vuoi lasciare con questo romanzo?
Ci sono molti messaggi nel mio romanzo. Uno, probabilmente il più importante, è legato alla montagna e al fatto che per il suo benessere è necessario ridare valore al concetto di “comunità”.
Ultimamente sento dire spesso che non è possibile salvarsi da soli ed è una frase che in bocca a politici e burocrati mi ispira sospetto. Tuttavia fondamentalmente la penso così anche io: in questa epoca di estremo nichilismo il ritorno alla Natura selvaggia è spesso visto come un percorso di allontanamento individuale dagli orrori della società alienata. Si sogna un’esistenza into the wild, equilibrata, pura e carica di libertà, abbandonando orpelli e vincoli di una vita frenetica e sporca, che arriva al punto di farci ammalare.
Ma un conto è sapercela fare da soli, essere pratici e autosufficienti, un conto è decidere che non c’è più nulla di importante oltre noi stessi. È davvero così? Siamo poi capaci di bastare a noi stessi? Sarà un bene per noi? E per la montagna? Per la Natura?
Persino Findalo alla fine sarà costretto a porsi delle domande.
L’uomo è parte del mondo e non può tirarsene fuori, in nessuna circostanza, e questa è l’unica affermazione di cui mi sento davvero sicuro. Le storie hanno senso soltanto finché è possibile raccontarle a qualcuno, altrimenti lo stesso scrivere diventa vano.
Per preservarla come l’amiamo, alla nostra montagna non servono eremiti e uomini selvaggi, ma comunità di persone che la mantengano viva, curata e sorvegliata, ricordando il proprio passato con uno sguardo attento al futuro, senza retorica o propaganda.
Un libro coinvolgente che porta a riflettere sulle scelte, le opportunità, i rapporti umani, la ricerca di sé e come sia importante il comportamento che ognuno adotta nei confronti gli altri a qualsiasi piano esso si trovi, dal più superficiale a quello più profondo.