INTERVISTA DELL'EDITORE ALL'AUTORE DI IL MISTERO DELLA MONTAGNA
Carissimo Marco Sartori nel tuo romanzo i personaggi sono ben caratterizzati. Sono tutti frutto d’invenzione o prendono spunto anche dalla realtà?
I tre personaggi principali, quelli attorno a cui si svolge l’intera vicenda, sono completamente e indubbiamente prodotto della mia fantasia ed elaborati attraverso un lungo lavoro. Non posso dire lo stesso per gli altri abitanti della valle. Le persone che si incontrano in questo romanzo sono frutto di invenzione, ma quasi sempre sono ispirate da uomini e donne che ho conosciuto davvero. Non avrebbe potuto essere diversamente: questo libro di fantasia ha radici profonde e un forte legame con il mondo reale ed i protagonisti che lo animano dovevano per forza essere credibili, quindi elaborati su modelli veri. Soltanto tre particolari personaggi sono esistiti veramente ed ho avuto la fortuna d’incontrarli e conoscerli mentre erano ancora in vita: Maria dei Rivotti, Mini di Lemie e Pino d’la Biounda.
«Esistono persone che credono di avere tutto ciò di cui hanno bisogno e altre che non si curano di ciò che li circonda. Ma ci sono anche coloro che invece avvertono in sé una profonda inquietudine, che sentono di essere immersi nel mistero e perciò sono sempre alla ricerca di qualcosa. Io amo l’arte e la cerco nel profumo dei larici bagnati dalla rugiada, bramo il sapere e lascio che sia il vecchio camoscio a insegnarmi. Ascolto le voci degli alberi e mi sforzo di capire ciò che possono dirmi le rocce. Loro che esistono fin da quando l’Universo fu fatto. E cerco la Luce del Mattino perché è lo scopo della mia vita».
Com’è nata l’idea del Figlio dei Boschi? Qualcuno ti ha ispirato o forse sei tu?
Trovo che la storia di Findalo sia molto affascinante. Ho iniziato a pensare a lui quando avevo meno di quindici anni e la sua storia abbozzata mi è letteralmente esplosa in mente per intero. Solo che all’epoca non avevo gli strumenti per scriverla; non riuscivo a mettere giù una trama che avesse un senso. Findalo era già molto simile a come lo immagino adesso e sotto moltissimi aspetti mi riconoscevo in lui: sognavo la sua vita a stretto contatto con la terra, ambivo a dimostrare il suo coraggio, ammiravo la sua capacità di estraniarsi da tutti per vivere in completa autonomia. In fondo mi stavo facendo strada verso l’adolescenza! Soprattutto invidiavo la sua immortalità, la sua capacità di non invecchiare. Credo che la vera scissione tra la sua anima e la mia sia avvenuta con il mio ingresso nell’età adulta: solo allora le nostre vite hanno preso due strade diverse perché ho lentamente intrapreso un’avventura in cui lui non poteva seguirmi. In quel momento ha smesso di essere davvero un personaggio autobiografico. Certamente restiamo legati dal comune amore per la Terra, per la montagna, dalla passione per la speculazione filosofica. Ma lui è un vero elfo dei boschi, una creatura legata al mito e a un passato remoto, mentre io sono un uomo in grado di sognare. E così, per magia, in età adulta sono stato capace di riagganciarlo e le nostre storie hanno ricominciato a correr parallele. Non sono la stessa, ma sono parallele.
C’è un capitolo sui cacciatori, ci parli un po’ di questa tua passione e di come la coniughi con il rispetto verso la natura, che è il motore portante del romanzo?
Per me è semplice rispondere a questa domanda perché la capacità di essere predatore è una caratteristica che ho nel sangue fin dalla nascita, essendo nato in una famiglia di cacciatori. Per me crescere per essere un cacciatore ha voluto dire imparare rispetto per me stesso, per gli altri e per gli animali; ha voluto dire capire il significato della parola responsabilità. Ancora oggi per me caccia è sinonimo di tradizione, valori, equilibrio, tecnica, impegno, tenacia, ritualità. Sono un predatore moderno: prelevo solo una piccolissima parte di una vasta risorsa. Questo implica una profonda conoscenza e rispetto per la Natura che, come spesso scrivo, è madre e amante.
E’ molto difficile spiegare la caccia oggigiorno perché è un’attività sempre più staccata dal tessuto sociale e perciò non viene più compresa. Se ne coglie per lo più l’aspetto sanguinario e violento dell’atto finale. In verità per chi riesce a superare questo ostacolo psicologico è un veicolo stupefacente per entrare in contatto intimo con la Natura. Ed è proprio in questo senso che nasce il desiderio di inserire la figura del cacciatore nel romanzo: non credo nell’ambientalismo da salotto. In queste pagine il lettore deve entrate in contatto con l’ambiente naturale attraverso gli occhi di chi frequenta veramente la montagna, qualche volta in modo nudo e crudo. L’uomo che voglia seriamente riallacciare un rapporto con la Natura lo deve fare mettendosi gli scarponi ai piedi e seguendo le orme di cacciatori, boscaioli, pescatori, raccoglitori di erbe selvatiche e funghi. E’ così, sudando, respirando i profumi del bosco, pestando fango, graffiandosi sui rovi, che un uomo o una donna imparano a conoscere e ad amare la montagna. Non in altri modi. L’amore è un sentimento che deve fondarsi sulla consapevolezza.
Il mito è ben più della storia, perché parla dritto al cuore delle persone ed è sempre attuale. Parli del mito e della leggenda, quale importanza e che ruolo hanno ricoperto nella tua vita?
Fondamentale, direi. Quando, da ragazzino, ho cominciato a pormi delle domande sul senso della vita non è stata mica la scienza a darmi risposte che calmassero la mia inquietudine! L’uomo non è fatto di sola ragione e l’indagine razionale non può soddisfare tutti i suoi bisogni. Grandi filosofi contemporanei sanno spiegare queste cose molto meglio di me e non a caso la frase riportata, che ho messo in bocca a Findalo, altro non è se non una citazione del grande Vito Mancuso. Gli uomini hanno bisogno di sogni e, prima di tutto, hanno bisogno di qualcosa in cui credere. Una società basata sul ragionamento, basata solo sul fare, è una società più povera e che non garantisce la felicità degli individui. A volte ho l’impressione che tutta la mia vita e la conseguente produzione letteraria siano stati un continuo vagabondare tra il mondo reale e quello del mito: nella narrazione trovo molto più efficace l’utilizzo di un linguaggio simbolico, di figure retoriche e di stratagemmi fantasiosi. Rispetto alla cronaca queste cose hanno il potere di rendere il discorso più leggero, intrigante e stimolante. Danno al lettore la possibilità di far proprio il messaggio e di condirlo con l’immaginazione. Certo, non sempre il ricorso al mito risulta un percorso agevole. Prendiamo l’esempio delle Sacre Scritture: hanno molto da insegnare e contengono messaggi di grande profondità, ma non si possono leggere e interpretare alla lettera, bensì necessitano di esegesi! E questo è un altro aspetto bellissimo delle leggende, ovvero che si prestano a diversi livelli di lettura.
«Certo. È quello che ho detto. Non lo sai che La Calcante e la Pera Cagna sono più ricche della Francia e della Spagna? È un vecchio detto di queste valli. Si diceva anche che sotto il Bec Ceresìn ci fosse un tunnel profondo, tutto pieno d’oro».
Questa storia si narra veramente? Se sì, ce ne parli?
In verità ne so ben poco. Sono storielle ascoltate da bambino e di cui non ho mai avuto modo di approfondire l’origine. Ma so per certo che ogni valle piemontese è uno scrigno ricco di queste piccole leggende che risalgono alla notte dei tempi. Anche qui, autori più competenti di me hanno compiuto ricerche approfondite e scritto molti volumi. Chissà se la mia professoressa di italiano si ricorda ancora il Pimassìn della Val Varaita? Prima parlavamo del mito, ma non è sempre necessario buttarsi sui testi biblici, sulle saghe mesopotamiche o sulla mitologia islandese per scoprire lo straordinario panorama di leggende elaborate dall’uomo. Qualche volta basta intervistare una persona anziana per imparare che elfi, folletti e diavoletti di tutti i tipi abitano ogni anfratto delle nostre montagne. Anche se non scritte, queste storie sono tutte intorno a noi e se sappiamo ascoltarle hanno ancora molto da dirci sul nostro passato e sul nostro presente.
Il romanzo si fonda sul rispetto della natura e l’importanza della vita. Credi che i giovani d’oggi sappiano capire questi valori, ora che siamo ancora più immersi, rispetto agli anni ’70, in un mondo artificiale?
Io credo che i giovani d’oggi, forse anche più che in passato, capiscano l’importanza della vita e del rispetto della Natura. Le sanno queste cose: riempiamo le loro teste con cartoni animati, fatine e puffi fin da quando sono piccolissimi. Il problema è che possiedono questa consapevolezza in via assolutamente teorica e mano a mano che crescono finiscono per relegare questi valori sempre più in basso. Proprio come un fiaba, imparano che la Natura è da rispettare e che la vita è sacra, ma poi finiscono per dimenticare l’importanza di questo messaggio perché vengono distratti da altre priorità.
Come dicevo prima, ciò che manca è la pratica, l’abitudine, il contatto intimo e qualche volta doloroso con la Natura. Il processo di distacco dall’ambiente naturale è storia antica e non nasce certamente negli ultimi decenni. La vita nelle città e l’antropizzazione sempre più estesa del territorio hanno lentamente cancellato il panorama della selva da davanti agli occhi della gente e la Natura è stata rivista, idealizzata, antropomorfizzata a nostro uso e consumo. Ora i giovani si trovano a vivere una nuova fase della storia, travolti da una rivoluzione di cui neppure noi comprendiamo la portata. Una rivoluzione che può essere una grande occasione, ma che spesso nasconde enormi rischi.
I nuovi strumenti portatili, internet e i social network sono formidabili strumenti di comunicazione e io stesso li utilizzo quotidianamente per diffondere informazioni: attraverso gruppi, forum e community i giovani possono apprendere notizie, vedere immagini e video, approcciare il mondo naturale anche quando sia fisicamente lontano dal cemento delle loro città. Purtroppo mi sembra che l’ebbrezza dell’ipercomunicazione molto spesso travolga questi nostri giovani per cui i mezzi finiscono quasi sempre per trasformarsi in fini. Questo mi fa molta paura.
Il problema rimane sempre lo stesso: manca un contatto vero. Per conoscere e amare la Natura serve frequentazione ed è importante che la tecnologia, dopo aver fornito uno stimolo iniziale, non diventi un deterrente. Quindi il consiglio che mi sento di dare ai giovani è di allenare sé stessi alla capacità di spegnere, quando sia necessario, cellulare e computer per dedicare qualche ora ad una passeggiata vera, magari in compagnia. Senza musica e senza Ipod, ascoltando le voci del bosco, osservando i piccoli e molteplici segreti che la Natura può donare. Magari spingendosi giorno dopo giorno più lontano o più in alto. Questa è la grande sfida per il futuro dei nostri giovani.
Concluso sottolineando di non credere che i ragazzi degli anni ’70 possedessero una particolare sensibilità verso la Natura rispetto a quelli di oggi. Forse avevano la fortuna di viverci un po’ più in contatto o di avere nonni e genitori un po’ più vicini alla terra, ma ho l’impressione che abbiano sciupato molte occasioni. Il mondo inquinato e consumista che si è sviluppato negli ultimi decenni non si è mica creato da solo!
I bambini sono i fruitori e i custodi di un messaggio importante che rimane per mezzo della magia che si ritrova nelle storie e nei miti. Ricordandole da adulti dovrebbero riportarci alla nostra infanzia e insegnarci nuovamente qualcosa. Un vago alone di Peter Pan: moriremo crescendo?
Forse in qualche modo ho già risposto a questa domanda che è un po’ un sunto di quelle precedenti. Ma sì, credo sia proprio così! L’uomo adulto, quello razionale, pratico, che porta il pane a casa e vince sempre ogni battaglia, mi pare un modello di uomo triste. Non che io voglia elogiare l’immaturità! Ci mancherebbe.
Ma la capacità di sognare, di credere nell’importanza di qualcosa che non si può vedere o spiegare a parole, è una ricchezza ineguagliabile. Andando oltre la serietà del tangibile, sviluppando ironia, è possibile combattere l’individualismo che chiude l’animo dell’uomo in una gabbia dalle sbarre invisibili. Le menti feconde dei bambini sono in grado di assorbire una grande quantità di insegnamenti e valori che poi vanno lentamente dimenticati ed è invece importante che l’adulto si alleni a sognare, a mantenere con il proprio passato un legame che non si sciolga, senza farsi travolgere dal fiume impetuoso e spesso freddo della vita.
Carissimo Marco Sartori nel tuo romanzo i personaggi sono ben caratterizzati. Sono tutti frutto d’invenzione o prendono spunto anche dalla realtà?
I tre personaggi principali, quelli attorno a cui si svolge l’intera vicenda, sono completamente e indubbiamente prodotto della mia fantasia ed elaborati attraverso un lungo lavoro. Non posso dire lo stesso per gli altri abitanti della valle. Le persone che si incontrano in questo romanzo sono frutto di invenzione, ma quasi sempre sono ispirate da uomini e donne che ho conosciuto davvero. Non avrebbe potuto essere diversamente: questo libro di fantasia ha radici profonde e un forte legame con il mondo reale ed i protagonisti che lo animano dovevano per forza essere credibili, quindi elaborati su modelli veri. Soltanto tre particolari personaggi sono esistiti veramente ed ho avuto la fortuna d’incontrarli e conoscerli mentre erano ancora in vita: Maria dei Rivotti, Mini di Lemie e Pino d’la Biounda.
«Esistono persone che credono di avere tutto ciò di cui hanno bisogno e altre che non si curano di ciò che li circonda. Ma ci sono anche coloro che invece avvertono in sé una profonda inquietudine, che sentono di essere immersi nel mistero e perciò sono sempre alla ricerca di qualcosa. Io amo l’arte e la cerco nel profumo dei larici bagnati dalla rugiada, bramo il sapere e lascio che sia il vecchio camoscio a insegnarmi. Ascolto le voci degli alberi e mi sforzo di capire ciò che possono dirmi le rocce. Loro che esistono fin da quando l’Universo fu fatto. E cerco la Luce del Mattino perché è lo scopo della mia vita».
Com’è nata l’idea del Figlio dei Boschi? Qualcuno ti ha ispirato o forse sei tu?
Trovo che la storia di Findalo sia molto affascinante. Ho iniziato a pensare a lui quando avevo meno di quindici anni e la sua storia abbozzata mi è letteralmente esplosa in mente per intero. Solo che all’epoca non avevo gli strumenti per scriverla; non riuscivo a mettere giù una trama che avesse un senso. Findalo era già molto simile a come lo immagino adesso e sotto moltissimi aspetti mi riconoscevo in lui: sognavo la sua vita a stretto contatto con la terra, ambivo a dimostrare il suo coraggio, ammiravo la sua capacità di estraniarsi da tutti per vivere in completa autonomia. In fondo mi stavo facendo strada verso l’adolescenza! Soprattutto invidiavo la sua immortalità, la sua capacità di non invecchiare. Credo che la vera scissione tra la sua anima e la mia sia avvenuta con il mio ingresso nell’età adulta: solo allora le nostre vite hanno preso due strade diverse perché ho lentamente intrapreso un’avventura in cui lui non poteva seguirmi. In quel momento ha smesso di essere davvero un personaggio autobiografico. Certamente restiamo legati dal comune amore per la Terra, per la montagna, dalla passione per la speculazione filosofica. Ma lui è un vero elfo dei boschi, una creatura legata al mito e a un passato remoto, mentre io sono un uomo in grado di sognare. E così, per magia, in età adulta sono stato capace di riagganciarlo e le nostre storie hanno ricominciato a correr parallele. Non sono la stessa, ma sono parallele.
C’è un capitolo sui cacciatori, ci parli un po’ di questa tua passione e di come la coniughi con il rispetto verso la natura, che è il motore portante del romanzo?
Per me è semplice rispondere a questa domanda perché la capacità di essere predatore è una caratteristica che ho nel sangue fin dalla nascita, essendo nato in una famiglia di cacciatori. Per me crescere per essere un cacciatore ha voluto dire imparare rispetto per me stesso, per gli altri e per gli animali; ha voluto dire capire il significato della parola responsabilità. Ancora oggi per me caccia è sinonimo di tradizione, valori, equilibrio, tecnica, impegno, tenacia, ritualità. Sono un predatore moderno: prelevo solo una piccolissima parte di una vasta risorsa. Questo implica una profonda conoscenza e rispetto per la Natura che, come spesso scrivo, è madre e amante.
E’ molto difficile spiegare la caccia oggigiorno perché è un’attività sempre più staccata dal tessuto sociale e perciò non viene più compresa. Se ne coglie per lo più l’aspetto sanguinario e violento dell’atto finale. In verità per chi riesce a superare questo ostacolo psicologico è un veicolo stupefacente per entrare in contatto intimo con la Natura. Ed è proprio in questo senso che nasce il desiderio di inserire la figura del cacciatore nel romanzo: non credo nell’ambientalismo da salotto. In queste pagine il lettore deve entrate in contatto con l’ambiente naturale attraverso gli occhi di chi frequenta veramente la montagna, qualche volta in modo nudo e crudo. L’uomo che voglia seriamente riallacciare un rapporto con la Natura lo deve fare mettendosi gli scarponi ai piedi e seguendo le orme di cacciatori, boscaioli, pescatori, raccoglitori di erbe selvatiche e funghi. E’ così, sudando, respirando i profumi del bosco, pestando fango, graffiandosi sui rovi, che un uomo o una donna imparano a conoscere e ad amare la montagna. Non in altri modi. L’amore è un sentimento che deve fondarsi sulla consapevolezza.
Il mito è ben più della storia, perché parla dritto al cuore delle persone ed è sempre attuale. Parli del mito e della leggenda, quale importanza e che ruolo hanno ricoperto nella tua vita?
Fondamentale, direi. Quando, da ragazzino, ho cominciato a pormi delle domande sul senso della vita non è stata mica la scienza a darmi risposte che calmassero la mia inquietudine! L’uomo non è fatto di sola ragione e l’indagine razionale non può soddisfare tutti i suoi bisogni. Grandi filosofi contemporanei sanno spiegare queste cose molto meglio di me e non a caso la frase riportata, che ho messo in bocca a Findalo, altro non è se non una citazione del grande Vito Mancuso. Gli uomini hanno bisogno di sogni e, prima di tutto, hanno bisogno di qualcosa in cui credere. Una società basata sul ragionamento, basata solo sul fare, è una società più povera e che non garantisce la felicità degli individui. A volte ho l’impressione che tutta la mia vita e la conseguente produzione letteraria siano stati un continuo vagabondare tra il mondo reale e quello del mito: nella narrazione trovo molto più efficace l’utilizzo di un linguaggio simbolico, di figure retoriche e di stratagemmi fantasiosi. Rispetto alla cronaca queste cose hanno il potere di rendere il discorso più leggero, intrigante e stimolante. Danno al lettore la possibilità di far proprio il messaggio e di condirlo con l’immaginazione. Certo, non sempre il ricorso al mito risulta un percorso agevole. Prendiamo l’esempio delle Sacre Scritture: hanno molto da insegnare e contengono messaggi di grande profondità, ma non si possono leggere e interpretare alla lettera, bensì necessitano di esegesi! E questo è un altro aspetto bellissimo delle leggende, ovvero che si prestano a diversi livelli di lettura.
«Certo. È quello che ho detto. Non lo sai che La Calcante e la Pera Cagna sono più ricche della Francia e della Spagna? È un vecchio detto di queste valli. Si diceva anche che sotto il Bec Ceresìn ci fosse un tunnel profondo, tutto pieno d’oro».
Questa storia si narra veramente? Se sì, ce ne parli?
In verità ne so ben poco. Sono storielle ascoltate da bambino e di cui non ho mai avuto modo di approfondire l’origine. Ma so per certo che ogni valle piemontese è uno scrigno ricco di queste piccole leggende che risalgono alla notte dei tempi. Anche qui, autori più competenti di me hanno compiuto ricerche approfondite e scritto molti volumi. Chissà se la mia professoressa di italiano si ricorda ancora il Pimassìn della Val Varaita? Prima parlavamo del mito, ma non è sempre necessario buttarsi sui testi biblici, sulle saghe mesopotamiche o sulla mitologia islandese per scoprire lo straordinario panorama di leggende elaborate dall’uomo. Qualche volta basta intervistare una persona anziana per imparare che elfi, folletti e diavoletti di tutti i tipi abitano ogni anfratto delle nostre montagne. Anche se non scritte, queste storie sono tutte intorno a noi e se sappiamo ascoltarle hanno ancora molto da dirci sul nostro passato e sul nostro presente.
Il romanzo si fonda sul rispetto della natura e l’importanza della vita. Credi che i giovani d’oggi sappiano capire questi valori, ora che siamo ancora più immersi, rispetto agli anni ’70, in un mondo artificiale?
Io credo che i giovani d’oggi, forse anche più che in passato, capiscano l’importanza della vita e del rispetto della Natura. Le sanno queste cose: riempiamo le loro teste con cartoni animati, fatine e puffi fin da quando sono piccolissimi. Il problema è che possiedono questa consapevolezza in via assolutamente teorica e mano a mano che crescono finiscono per relegare questi valori sempre più in basso. Proprio come un fiaba, imparano che la Natura è da rispettare e che la vita è sacra, ma poi finiscono per dimenticare l’importanza di questo messaggio perché vengono distratti da altre priorità.
Come dicevo prima, ciò che manca è la pratica, l’abitudine, il contatto intimo e qualche volta doloroso con la Natura. Il processo di distacco dall’ambiente naturale è storia antica e non nasce certamente negli ultimi decenni. La vita nelle città e l’antropizzazione sempre più estesa del territorio hanno lentamente cancellato il panorama della selva da davanti agli occhi della gente e la Natura è stata rivista, idealizzata, antropomorfizzata a nostro uso e consumo. Ora i giovani si trovano a vivere una nuova fase della storia, travolti da una rivoluzione di cui neppure noi comprendiamo la portata. Una rivoluzione che può essere una grande occasione, ma che spesso nasconde enormi rischi.
I nuovi strumenti portatili, internet e i social network sono formidabili strumenti di comunicazione e io stesso li utilizzo quotidianamente per diffondere informazioni: attraverso gruppi, forum e community i giovani possono apprendere notizie, vedere immagini e video, approcciare il mondo naturale anche quando sia fisicamente lontano dal cemento delle loro città. Purtroppo mi sembra che l’ebbrezza dell’ipercomunicazione molto spesso travolga questi nostri giovani per cui i mezzi finiscono quasi sempre per trasformarsi in fini. Questo mi fa molta paura.
Il problema rimane sempre lo stesso: manca un contatto vero. Per conoscere e amare la Natura serve frequentazione ed è importante che la tecnologia, dopo aver fornito uno stimolo iniziale, non diventi un deterrente. Quindi il consiglio che mi sento di dare ai giovani è di allenare sé stessi alla capacità di spegnere, quando sia necessario, cellulare e computer per dedicare qualche ora ad una passeggiata vera, magari in compagnia. Senza musica e senza Ipod, ascoltando le voci del bosco, osservando i piccoli e molteplici segreti che la Natura può donare. Magari spingendosi giorno dopo giorno più lontano o più in alto. Questa è la grande sfida per il futuro dei nostri giovani.
Concluso sottolineando di non credere che i ragazzi degli anni ’70 possedessero una particolare sensibilità verso la Natura rispetto a quelli di oggi. Forse avevano la fortuna di viverci un po’ più in contatto o di avere nonni e genitori un po’ più vicini alla terra, ma ho l’impressione che abbiano sciupato molte occasioni. Il mondo inquinato e consumista che si è sviluppato negli ultimi decenni non si è mica creato da solo!
I bambini sono i fruitori e i custodi di un messaggio importante che rimane per mezzo della magia che si ritrova nelle storie e nei miti. Ricordandole da adulti dovrebbero riportarci alla nostra infanzia e insegnarci nuovamente qualcosa. Un vago alone di Peter Pan: moriremo crescendo?
Forse in qualche modo ho già risposto a questa domanda che è un po’ un sunto di quelle precedenti. Ma sì, credo sia proprio così! L’uomo adulto, quello razionale, pratico, che porta il pane a casa e vince sempre ogni battaglia, mi pare un modello di uomo triste. Non che io voglia elogiare l’immaturità! Ci mancherebbe.
Ma la capacità di sognare, di credere nell’importanza di qualcosa che non si può vedere o spiegare a parole, è una ricchezza ineguagliabile. Andando oltre la serietà del tangibile, sviluppando ironia, è possibile combattere l’individualismo che chiude l’animo dell’uomo in una gabbia dalle sbarre invisibili. Le menti feconde dei bambini sono in grado di assorbire una grande quantità di insegnamenti e valori che poi vanno lentamente dimenticati ed è invece importante che l’adulto si alleni a sognare, a mantenere con il proprio passato un legame che non si sciolga, senza farsi travolgere dal fiume impetuoso e spesso freddo della vita.