
INTERVISTA DELL'EDITORE ALL'AUTORE DI AMARA LUCE A VILLA MARGOT
Buongiorno Nazzareno, quando e perché ha iniziato a scrivere? Da quanto scrive?
Mi è sempre piaciuto scrivere. Sin da ragazzino scrivevo articoli per il giornaletto scolastico, per quello degli scout e successivamente per il notiziario di quartiere. Tant’è che sognavo di fare il giornalista e ne ho anche avuto l’opportunità, però ho fatto scelte diverse, di cui peraltro non mi pento affatto. Ho comunque sempre continuato a scrivere e ho pubblicato il primo libro soltanto a 63 anni.
Come è nata l'idea di scrivere Amara luce a Villa Margot?
Il romanzo è iniziato diversi anni fa, ha avuto una gestazione abbastanza lunga e discontinua e si è sviluppato poco alla volta. Nel frattempo ho pubblicato una serie di racconti e in seguito un libro incentrato su una storia vera del nostro territorio.
Villa Margot esiste davvero ed è proprio situata a Rivoli?
Non so se esista davvero, però a Rivoli e ad Alpignano vi sono alcune vecchie ville che hanno acceso la mia immaginazione e potrebbero somigliare a Villa Margot.
Il protagonista, con le sue ricerche, arriva a Parigi. Lei che legame ha con questa città?
Come molti cisalpini amo la Francia: per la sua lingua, musicale come le sue canzoni, per lo champagne e il paté, per l’identità nazionale dei francesi e la loro capacità di valorizzare sempre i punti di forza. Ho avuto modo di conoscere abbastanza bene Parigi poiché per oltre sette anni ho lavorato con una società francese che ha sede nella capitale.
Come mai questa volta ha scelto di scrivere un cold case?
In realtà non avevo in mente di scrivere un cold case, anche perché non sono un appassionato di gialli, sebbene ne abbia letto un certo numero. Il mio intento era di raccontare come le persone comuni abbiano vissuto e subìto i grandi eventi del novecento. Inoltre volevo evidenziare che in ogni famiglia “normale” possono esservi zone d’ombra e fatti misteriosi rimasti inspiegati.
Questa considerazione deriva da un fatto personale: il mio nonno paterno scomparve in circostanze misteriose nei boschi di Stupinigi durante la guerra, il suo corpo fu ritrovato parecchi giorni dopo, e su questa morte non ci fu mai una spiegazione.
A quale personaggio è più affezionato?
Domandare questo a uno scrittore è come chiedere a un genitore a quale figlio vuole più bene. Ognuno dei personaggi ha una caratteristica che me lo rende caro. Oltre a Donato che è il protagonista, i personaggi che prediligo sono alcune figure femminili: Irene, Aurelia, Janine. Perché impersonano le qualità migliori delle donne: la saggezza, il buon senso, la resilienza.
I personaggi del suo romanzo in cosa le somigliano?
Sicuramente Donato è il personaggio che mi assomiglia di più, ma per certi versi anche Aurelia e Oreste, figure nelle quali ho trasferito un po’ della mia piemontesità.
Qual è il messaggio racchiuso in questo romanzo?
La chiave di lettura di questo romanzo è già presente nel titolo, infatti la parola luce vuole indicare l’azione del “far luce” ovvero la ricerca della verità che non sempre è univoca. Quando si cerca di chiarire un fatto rimasto sepolto per molto tempo, ci si accorge che difficilmente emerge una verità assoluta ma tante verità quanti sono i personaggi della storia. Questa è una riflessione nata da un film di molti anni fa, “Rashomon” di Akira Kurosawa. In questo film quattro testimoni raccontano lo stesso episodio, l’uccisione di un samurai, in quattro modi diversi, ed è una parabola sulle tante sfaccettature che può avere una verità. Ciò avviene perché ognuno di noi tende a rimuovere dai propri ricordi i fatti più dolorosi e a ricordare quelli più piacevoli, così si finisce per costruire una verità a proprio uso e consumo. Per verificare questa affermazione provate a chiedere a due fratelli di raccontare uno stesso episodio vissuto insieme durante l’infanzia e otterrete quasi sempre risposte differenti.
C’è poi un secondo messaggio nel romanzo e riguarda la possibilità di classificare in modo netto i buoni e i cattivi. La tesi è che non esistano persone integralmente buone o del tutto cattive, ma che ogni individuo possa avere comportamenti buoni o cattivi a seconda delle circostanze in cui si trova. Ovviamente escludendo da questa affermazione i casi estremi: i santi da un lato e i malvagi assoluti dall’altro.
Quali opere letterarie o autori hanno influenzato la sua scrittura?
Ho letto molto soprattutto in gioventù. Penso che il mio modo di scrivere sia stato in parte influenzato dagli scrittori nordamericani. Oltre ai classici quali Mark Twain, Herman Melville, Jack London, per me il più importante è stato certamente Ernest Hemingway che apprezzo per il suo stile giornalistico, diretto e incisivo, e ritengo che Il vecchio e il mare sia un vero capolavoro. A seguire Steinbeck, Caldwell, Kerouac, Salinger, tutti accomunati da una scrittura semplice ed efficace. L’altro caposaldo della mia formazione culturale è rappresentato dagli scrittori italiani di metà novecento, in particolare Pavese, Calvino, Sciascia e soprattutto Primo Levi.
Quando preferisce scrivere, ha un luogo particolare, un metodo che segue ogni volta?
Non ho un momento preciso in cui scrivere, tuttavia il mattino mi è più congeniale perché ho la mente più sveglia e creativa. Se mi viene un’idea o un’ispirazione, in qualsiasi luogo mi trovi cerco di annotarla su un’agendina e appena posso la riporto sul computer in una apposita cartella di spunti e annotazioni. Scrivo al computer quando ho già elaborato un progetto chiaro, scrivo invece a matita su un quaderno quando le idee sono ancora un po’ confuse e mi sembra che lo scorrere della mano sul foglio faccia fluire meglio il pensiero.
Ha dei progetti in lavorazione?
Ho un certo numero di racconti inediti che potrebbero essere raccolti in un libro, ma poiché in Italia il genere letterario del racconto non è molto apprezzato, penso che tenterò di sviluppare una delle storie già scritte, trasformandola in un romanzo di più ampio respiro.
Buongiorno Nazzareno, quando e perché ha iniziato a scrivere? Da quanto scrive?
Mi è sempre piaciuto scrivere. Sin da ragazzino scrivevo articoli per il giornaletto scolastico, per quello degli scout e successivamente per il notiziario di quartiere. Tant’è che sognavo di fare il giornalista e ne ho anche avuto l’opportunità, però ho fatto scelte diverse, di cui peraltro non mi pento affatto. Ho comunque sempre continuato a scrivere e ho pubblicato il primo libro soltanto a 63 anni.
Come è nata l'idea di scrivere Amara luce a Villa Margot?
Il romanzo è iniziato diversi anni fa, ha avuto una gestazione abbastanza lunga e discontinua e si è sviluppato poco alla volta. Nel frattempo ho pubblicato una serie di racconti e in seguito un libro incentrato su una storia vera del nostro territorio.
Villa Margot esiste davvero ed è proprio situata a Rivoli?
Non so se esista davvero, però a Rivoli e ad Alpignano vi sono alcune vecchie ville che hanno acceso la mia immaginazione e potrebbero somigliare a Villa Margot.
Il protagonista, con le sue ricerche, arriva a Parigi. Lei che legame ha con questa città?
Come molti cisalpini amo la Francia: per la sua lingua, musicale come le sue canzoni, per lo champagne e il paté, per l’identità nazionale dei francesi e la loro capacità di valorizzare sempre i punti di forza. Ho avuto modo di conoscere abbastanza bene Parigi poiché per oltre sette anni ho lavorato con una società francese che ha sede nella capitale.
Come mai questa volta ha scelto di scrivere un cold case?
In realtà non avevo in mente di scrivere un cold case, anche perché non sono un appassionato di gialli, sebbene ne abbia letto un certo numero. Il mio intento era di raccontare come le persone comuni abbiano vissuto e subìto i grandi eventi del novecento. Inoltre volevo evidenziare che in ogni famiglia “normale” possono esservi zone d’ombra e fatti misteriosi rimasti inspiegati.
Questa considerazione deriva da un fatto personale: il mio nonno paterno scomparve in circostanze misteriose nei boschi di Stupinigi durante la guerra, il suo corpo fu ritrovato parecchi giorni dopo, e su questa morte non ci fu mai una spiegazione.
A quale personaggio è più affezionato?
Domandare questo a uno scrittore è come chiedere a un genitore a quale figlio vuole più bene. Ognuno dei personaggi ha una caratteristica che me lo rende caro. Oltre a Donato che è il protagonista, i personaggi che prediligo sono alcune figure femminili: Irene, Aurelia, Janine. Perché impersonano le qualità migliori delle donne: la saggezza, il buon senso, la resilienza.
I personaggi del suo romanzo in cosa le somigliano?
Sicuramente Donato è il personaggio che mi assomiglia di più, ma per certi versi anche Aurelia e Oreste, figure nelle quali ho trasferito un po’ della mia piemontesità.
Qual è il messaggio racchiuso in questo romanzo?
La chiave di lettura di questo romanzo è già presente nel titolo, infatti la parola luce vuole indicare l’azione del “far luce” ovvero la ricerca della verità che non sempre è univoca. Quando si cerca di chiarire un fatto rimasto sepolto per molto tempo, ci si accorge che difficilmente emerge una verità assoluta ma tante verità quanti sono i personaggi della storia. Questa è una riflessione nata da un film di molti anni fa, “Rashomon” di Akira Kurosawa. In questo film quattro testimoni raccontano lo stesso episodio, l’uccisione di un samurai, in quattro modi diversi, ed è una parabola sulle tante sfaccettature che può avere una verità. Ciò avviene perché ognuno di noi tende a rimuovere dai propri ricordi i fatti più dolorosi e a ricordare quelli più piacevoli, così si finisce per costruire una verità a proprio uso e consumo. Per verificare questa affermazione provate a chiedere a due fratelli di raccontare uno stesso episodio vissuto insieme durante l’infanzia e otterrete quasi sempre risposte differenti.
C’è poi un secondo messaggio nel romanzo e riguarda la possibilità di classificare in modo netto i buoni e i cattivi. La tesi è che non esistano persone integralmente buone o del tutto cattive, ma che ogni individuo possa avere comportamenti buoni o cattivi a seconda delle circostanze in cui si trova. Ovviamente escludendo da questa affermazione i casi estremi: i santi da un lato e i malvagi assoluti dall’altro.
Quali opere letterarie o autori hanno influenzato la sua scrittura?
Ho letto molto soprattutto in gioventù. Penso che il mio modo di scrivere sia stato in parte influenzato dagli scrittori nordamericani. Oltre ai classici quali Mark Twain, Herman Melville, Jack London, per me il più importante è stato certamente Ernest Hemingway che apprezzo per il suo stile giornalistico, diretto e incisivo, e ritengo che Il vecchio e il mare sia un vero capolavoro. A seguire Steinbeck, Caldwell, Kerouac, Salinger, tutti accomunati da una scrittura semplice ed efficace. L’altro caposaldo della mia formazione culturale è rappresentato dagli scrittori italiani di metà novecento, in particolare Pavese, Calvino, Sciascia e soprattutto Primo Levi.
Quando preferisce scrivere, ha un luogo particolare, un metodo che segue ogni volta?
Non ho un momento preciso in cui scrivere, tuttavia il mattino mi è più congeniale perché ho la mente più sveglia e creativa. Se mi viene un’idea o un’ispirazione, in qualsiasi luogo mi trovi cerco di annotarla su un’agendina e appena posso la riporto sul computer in una apposita cartella di spunti e annotazioni. Scrivo al computer quando ho già elaborato un progetto chiaro, scrivo invece a matita su un quaderno quando le idee sono ancora un po’ confuse e mi sembra che lo scorrere della mano sul foglio faccia fluire meglio il pensiero.
Ha dei progetti in lavorazione?
Ho un certo numero di racconti inediti che potrebbero essere raccolti in un libro, ma poiché in Italia il genere letterario del racconto non è molto apprezzato, penso che tenterò di sviluppare una delle storie già scritte, trasformandola in un romanzo di più ampio respiro.