INTERVISTA DELL'EDITORE ALL'AUTORE DI SUSSURRI DAL TEMPO
Professor Astolfi quando e perché ha iniziato a scrivere? Da quanto scrive?
Ho iniziato con la poesia sin da quando ero ragazzo. Usavo le agende in cui ogni anno depositavo poesie e pensieri e le mettevo sulla mensola della libreria in camera mia come se fossero libri veri di un poeta vero. Poi un giorno, in età adulta, le ho gettate tutte nel Po.
Ho ripreso dopo moltissimo tempo e le ho raccolte nel volume … ogni giorno le emozioni … pubblicate come e-book con EEE di Piera Rossotti e che ha vinto l’edizione 2012 del Premio Letterario Nabokov per e-book editi, sez. Poesia. Ora non ne scrivo più.
Con la narrativa è stato un po’ diverso perché ho iniziato a buttare giù qualche cosa circa una ventina d’anni fa, ma con tanta irregolarità (la costante della mia vita) e per caso perché non ci avevo mai pensato, ma forse perché mi annoiavo. Ho sempre preferito leggere. Iniziavo una storia poi stavo anche un anno senza riprenderla. Ho due romanzi in sospeso, uno circa a metà, l’altro all’inizio. Entrambi incominciati molti anni fa. E ora uno (sarebbe il terzo) abbastanza avanti.
Ho comunque all’attivo tre pubblicazioni.
Come è nata l'idea di scrivere Sussurri dal tempo?
Uno dei temi portanti della storia è la condizione di confino delle protagoniste. Che tipo di ricerche ha dovuto effettuare prima e durante la stesura del suo romanzo?
Lo scrivo in una nota del libro. L’idea mi è venuta leggendo in Storie di confino in Lucania, di Michele Crispino, un agile libro molto documentato (utilizzato anche nel mio lavoro a scuola) che, tra i tanti casi, narra quello di due sorelle francesi internate a Colobraro, della simpatia che una ha avuto per un ragazzo del paese. Però scrivere una storia d’amore non m’interessava. Bisognava prendere in considerazione qualcosa di diverso. Allora ho pensato ai racconti che mia suocera, emigrata al nord da Colobraro, faceva proprio di quei tempi, di quando, ragazza, vedeva i confinati passeggiare avanti e indietro nel paese, della vita difficile e del modo di essere della gente. E del Barone nelle cui terre lavoravano quasi tutti. Altre informazioni sono quelle che possiede un normale docente di Lettere e/o chi abbia letto Cristo s’è fermato a Eboli, di Carlo Levi e Il carcere (citato nel romanzo) che è uno dei due racconti lunghi (o romanzi brevi) del volume Prima che il gallo canti, di Cesare Pavese. Mentre per quanto riguarda cultura e superstizioni, ho fatto riferimento al libro di Ernesto de Martino, Mondo popolare e magia in Lucania (un’indagine che fece nel 1954).
Un contributo attivo e pratico me lo hanno anche dato le visite e le brevi permanenze a Colobraro dai parenti di mia suocera.
Infine il tempo, anzi il non-tempo, un’originale definizione su un aspetto della poetica leopardiana (se non ricordo male relativamente al canto Le ricordanze) che diede un giovane relatore inglese dell’Università di Oxford nei martedì letterari alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Cà Foscari di Venezia (che frequentavo).
Il non-tempo non è l’eternità come si potrebbe pensare perché l’eternità esiste da sempre e non ha relazione con l’uomo e col tempo, è la sola categoria che non gli appartiene perché sfugge ai suoi sensi, alla sua comprensione, al suo stesso istinto di sopravvivenza. C’è sempre stata e sempre ci sarà, invece l’uomo non c’è sempre stato e non si sa fino a quando ci sarà. E se con l’eternità non ha nessuna possibilità di relazione, ce l’ha invece col tempo che ha iniziato a scandirgli la vita nello stesso identico momento in cui ha varcato la soglia sulla scena del mondo. Ma che purtroppo gliela limita, la vita. Allora per non essere vinto, per non uscire di scena, ecco che l’uomo si inventa qualcosa come il non-tempo, un’ideale creazione all’interno del tempo stesso che gli consente di viaggiare lungo la sua estensione e rincorrerne il fluire. Un’impalpabile e morbida dimensione che, grazie all’immaginazione e all’arte, gli dà l’illusione dell’immortalità. In buona sostanza un tempo che esso stesso si è creato. Null’altro che un artificio fantastico, un ingegnoso e labile appiglio che lo sorregge nell’impari lotta con il tempo.
Ma la questione del tempo è complessa e non possiedo certo io gli strumenti per chiarirla. E non intendo nemmeno affrontarla. Per questo ci sono i filosofi e gli scienziati
Una caratteristica del romanzo è il labile confine tra razionale e irrazionale, tra realtà e percezione, ce ne vuole parlare?
La sensazione che avevo quando mi trovavo a Colobraro (ma anche a Bernalda, un paese molto vicino in cui è nata e ha trascorso l’adolescenza mia moglie) era una sorta di deja vu, quell’impulso della mente che porta ad avere l’impressione di essere già stati in un luogo ma di non ricordarlo. Del dubbio che nasce ma che immediatamente si smorza perché si è certi di non esserci mai stati. La stessa dinamica avviene anche per una persona che si crede di aver conosciuto, ma quando nasce il dubbio viene inevitabile il canonico quel viso mi è noto, ma non ricordo come e perché. Ma ciò che m’interessava era “quel piccolo dubbio” che talvolta porta addirittura ad affermare – anche se scherzosamente – di essere stati in quel luogo o di avere vista la tal persona in un’altra vita.
E mi è piaciuta l’idea di collocare una storia in questa dimensione così impalpabile e così incerta.
Ho pensato a Federico Fellini che parlando del suo cinema diceva che attraverso la finzione io racconto la verità.
E ciò mi ha spinto a narrare una storia che oscilla tra reale (il confino, gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, la gente del paese, le atmosfere della natura, il brigantaggio meridionale post unitario) e l’irreale (le sensitive Mathilde, Claire e Marialourdes; le stesse sembianze delle protagoniste nella poetessa Isabella Morra e nella pittrice Artemisia Gentileschi che dai secoli passati tentano invano di comunicare con loro).
E ho portato all'eccesso e quasi al paradosso quella che è l’atavica voglia dell’uomo di avere un ideale puro e incontaminabile cui sottomettersi e amare. E ciò è rappresentato da Lucia e Marialourdes in virtù della loro straordinaria Bellezza. Straordinaria perché straordinario deve essere ciò cui l’uomo tende ad affidarsi incondizionatamente e senza esitazione perché ne avverte la necessità. Lo stesso identico caso della fede religiosa che si accetta senza porsi nessuna domanda o nutrire dubbi.
Ma non è tutto qui perché entra in gioco anche la violenza maschile sulle donne da sempre. L’odiosa e inaccettabile violenza che non può appartenere alla civiltà.
Nella storia ciò ha un ruolo fondamentale (non dico altro per non svelarne l’aspetto più importante).
In buona sostanza e a costo di ripetermi, il reale sono la violenza e l’amore nella storia narrata così come lo sono state Isabella Morra e Artemisia Gentileschi nella storia passata, mentre il fantastico sono Lucia, Marialourdes, Lou e Claire che viaggiano nei secoli in un romantico tentativo di non farsi fagocitare dall'invincibile Leviatano che è il tempo.
Lei è un uomo che scrive di donne con grande sensibilità. Com'è riuscito a immedesimarsi nell'universo femminile?
Questo non lo so. In effetti ho più amiche che amici. La domanda mi fa pensare a Michelangelo Antonioni, il regista cinematografico della mia città (scomparso da sei anni ultranovantenne) considerato uno dei maestri del cinema italiano. Ho fatto la tesi su di lui e nelle ricerche svolte ho appreso che viveva in una famiglia di sole donne e che ha sempre dichiarato di avere imparato molto da loro e di apprezzare la psicologia femminile. Cosa che ritroviamo nei suoi film in cui la vera protagonista è la donna.
Forse l’aria di Ferrara trasmette questa sensibilità.
Al di là delle battute, anch’io condivido in pieno la vicinanza di Antonioni alle donne perché nel loro spirito colgo più ricchezza, più sincerità, più creatività, più solarità, più coraggio nelle avversità, nelle scelte, e soprattutto più spontaneità e passione. E più intelligenza.
A quale personaggio è più affezionato?
Penso a Lou. Fragile e forte nello stesso tempo. Passionale e capace per amore di sacrificare la propria purezza interiore. Forse anche perché con lei si è portati ad essere protettivi, e ciò è un esercizio importante per l’affinamento dello spirito maschile. O forse perché io tendenzialmente lo sono, protettivo.
Lei ha scritto molte poesie e il suo stile narrativo lo rivela. Quale forma letteraria predilige?
La poesia che tende a scardinare il reale, ma che lo racconta attraverso un’adeguata e ardita scelta lessicale come gli ispano-americani (Federico Garcia Lorca, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda per citare i tre più grandi). Nella narrativa moltissimi. Ma siccome devo essere un po’ meno evasivo, dico principalmente Fedor Dostoevskji, Cesare Pavese, Jean Paul Sartre, Albert Camus, Italo Calvino, Alberto Moravia, Lev Tolstoj, John Steinbeck, Elsa Morante, Giorgio Bassani. Di viventi, molto Sebastiano Vassalli, Orhan Pamuk, Haruki Hurakami, Margaret Mazzantini, la prima Banana Yoshimoto.
Quali opere letterarie o autori hanno influenzato la sua scrittura?
Non saprei. Amo molto Cesare Pavese. Il suo mondo mi ha sempre affascinato. In particolare come vive la natura che non manca mai di descrivere in modo tanto lirico con il suo peculiare stile essenziale, e di come vi emerga con forza il legame dei suoi personaggi. Penso che la relazione uomo-natura sia un aspetto che non debba mai essere assente nella letteratura. L’ambiente in cui viviamo è intimamente legato a noi stessi e Cesare Pavese ha la grande capacità di sussurrarcelo con grazia e forza allo stesso tempo.
Ma non c’è solo Cesare Pavese nel mio mondo letterario perché hanno un peso altrettanto importante Fedor Dostoevskii e Albert Camus. Il primo per la straordinaria capacità dell’analisi interiore, il secondo per il senso dell’essere e non essere quasi pavesiano per certi aspetti.
Quando preferisce scrivere, ha un luogo particolare, un metodo che segue ogni volta?
La cameretta di mio figlio Enrico che vive a Roma da anni (ha da poco presentato nella libreria Feltrinelli di Ferrara il suo secondo romanzo). Non ho metodi di sorta. L’unica costante è il fatto di interrompere la scrittura e riprenderla anche dopo qualche anno.
Ha dei progetti in lavorazione?
Sì. Un giallo che in realtà – tra un paio di delitti apparentemente insolubili e con il colpo di scena finale – è il pretesto per narrare invece il grande dilemma del commissario, come me appassionato golfista, diviso tra due donne, la moglie che ama e una giovane che ha amato anni prima che incontra e riama.
L’ho interrotto quando mi avete inviato le bozze e temo che lo riprenderò chissà quando.
Ma non sentitevi in colpa. Non lo sapevate.
Professor Astolfi quando e perché ha iniziato a scrivere? Da quanto scrive?
Ho iniziato con la poesia sin da quando ero ragazzo. Usavo le agende in cui ogni anno depositavo poesie e pensieri e le mettevo sulla mensola della libreria in camera mia come se fossero libri veri di un poeta vero. Poi un giorno, in età adulta, le ho gettate tutte nel Po.
Ho ripreso dopo moltissimo tempo e le ho raccolte nel volume … ogni giorno le emozioni … pubblicate come e-book con EEE di Piera Rossotti e che ha vinto l’edizione 2012 del Premio Letterario Nabokov per e-book editi, sez. Poesia. Ora non ne scrivo più.
Con la narrativa è stato un po’ diverso perché ho iniziato a buttare giù qualche cosa circa una ventina d’anni fa, ma con tanta irregolarità (la costante della mia vita) e per caso perché non ci avevo mai pensato, ma forse perché mi annoiavo. Ho sempre preferito leggere. Iniziavo una storia poi stavo anche un anno senza riprenderla. Ho due romanzi in sospeso, uno circa a metà, l’altro all’inizio. Entrambi incominciati molti anni fa. E ora uno (sarebbe il terzo) abbastanza avanti.
Ho comunque all’attivo tre pubblicazioni.
Come è nata l'idea di scrivere Sussurri dal tempo?
Uno dei temi portanti della storia è la condizione di confino delle protagoniste. Che tipo di ricerche ha dovuto effettuare prima e durante la stesura del suo romanzo?
Lo scrivo in una nota del libro. L’idea mi è venuta leggendo in Storie di confino in Lucania, di Michele Crispino, un agile libro molto documentato (utilizzato anche nel mio lavoro a scuola) che, tra i tanti casi, narra quello di due sorelle francesi internate a Colobraro, della simpatia che una ha avuto per un ragazzo del paese. Però scrivere una storia d’amore non m’interessava. Bisognava prendere in considerazione qualcosa di diverso. Allora ho pensato ai racconti che mia suocera, emigrata al nord da Colobraro, faceva proprio di quei tempi, di quando, ragazza, vedeva i confinati passeggiare avanti e indietro nel paese, della vita difficile e del modo di essere della gente. E del Barone nelle cui terre lavoravano quasi tutti. Altre informazioni sono quelle che possiede un normale docente di Lettere e/o chi abbia letto Cristo s’è fermato a Eboli, di Carlo Levi e Il carcere (citato nel romanzo) che è uno dei due racconti lunghi (o romanzi brevi) del volume Prima che il gallo canti, di Cesare Pavese. Mentre per quanto riguarda cultura e superstizioni, ho fatto riferimento al libro di Ernesto de Martino, Mondo popolare e magia in Lucania (un’indagine che fece nel 1954).
Un contributo attivo e pratico me lo hanno anche dato le visite e le brevi permanenze a Colobraro dai parenti di mia suocera.
Infine il tempo, anzi il non-tempo, un’originale definizione su un aspetto della poetica leopardiana (se non ricordo male relativamente al canto Le ricordanze) che diede un giovane relatore inglese dell’Università di Oxford nei martedì letterari alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Cà Foscari di Venezia (che frequentavo).
Il non-tempo non è l’eternità come si potrebbe pensare perché l’eternità esiste da sempre e non ha relazione con l’uomo e col tempo, è la sola categoria che non gli appartiene perché sfugge ai suoi sensi, alla sua comprensione, al suo stesso istinto di sopravvivenza. C’è sempre stata e sempre ci sarà, invece l’uomo non c’è sempre stato e non si sa fino a quando ci sarà. E se con l’eternità non ha nessuna possibilità di relazione, ce l’ha invece col tempo che ha iniziato a scandirgli la vita nello stesso identico momento in cui ha varcato la soglia sulla scena del mondo. Ma che purtroppo gliela limita, la vita. Allora per non essere vinto, per non uscire di scena, ecco che l’uomo si inventa qualcosa come il non-tempo, un’ideale creazione all’interno del tempo stesso che gli consente di viaggiare lungo la sua estensione e rincorrerne il fluire. Un’impalpabile e morbida dimensione che, grazie all’immaginazione e all’arte, gli dà l’illusione dell’immortalità. In buona sostanza un tempo che esso stesso si è creato. Null’altro che un artificio fantastico, un ingegnoso e labile appiglio che lo sorregge nell’impari lotta con il tempo.
Ma la questione del tempo è complessa e non possiedo certo io gli strumenti per chiarirla. E non intendo nemmeno affrontarla. Per questo ci sono i filosofi e gli scienziati
Una caratteristica del romanzo è il labile confine tra razionale e irrazionale, tra realtà e percezione, ce ne vuole parlare?
La sensazione che avevo quando mi trovavo a Colobraro (ma anche a Bernalda, un paese molto vicino in cui è nata e ha trascorso l’adolescenza mia moglie) era una sorta di deja vu, quell’impulso della mente che porta ad avere l’impressione di essere già stati in un luogo ma di non ricordarlo. Del dubbio che nasce ma che immediatamente si smorza perché si è certi di non esserci mai stati. La stessa dinamica avviene anche per una persona che si crede di aver conosciuto, ma quando nasce il dubbio viene inevitabile il canonico quel viso mi è noto, ma non ricordo come e perché. Ma ciò che m’interessava era “quel piccolo dubbio” che talvolta porta addirittura ad affermare – anche se scherzosamente – di essere stati in quel luogo o di avere vista la tal persona in un’altra vita.
E mi è piaciuta l’idea di collocare una storia in questa dimensione così impalpabile e così incerta.
Ho pensato a Federico Fellini che parlando del suo cinema diceva che attraverso la finzione io racconto la verità.
E ciò mi ha spinto a narrare una storia che oscilla tra reale (il confino, gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, la gente del paese, le atmosfere della natura, il brigantaggio meridionale post unitario) e l’irreale (le sensitive Mathilde, Claire e Marialourdes; le stesse sembianze delle protagoniste nella poetessa Isabella Morra e nella pittrice Artemisia Gentileschi che dai secoli passati tentano invano di comunicare con loro).
E ho portato all'eccesso e quasi al paradosso quella che è l’atavica voglia dell’uomo di avere un ideale puro e incontaminabile cui sottomettersi e amare. E ciò è rappresentato da Lucia e Marialourdes in virtù della loro straordinaria Bellezza. Straordinaria perché straordinario deve essere ciò cui l’uomo tende ad affidarsi incondizionatamente e senza esitazione perché ne avverte la necessità. Lo stesso identico caso della fede religiosa che si accetta senza porsi nessuna domanda o nutrire dubbi.
Ma non è tutto qui perché entra in gioco anche la violenza maschile sulle donne da sempre. L’odiosa e inaccettabile violenza che non può appartenere alla civiltà.
Nella storia ciò ha un ruolo fondamentale (non dico altro per non svelarne l’aspetto più importante).
In buona sostanza e a costo di ripetermi, il reale sono la violenza e l’amore nella storia narrata così come lo sono state Isabella Morra e Artemisia Gentileschi nella storia passata, mentre il fantastico sono Lucia, Marialourdes, Lou e Claire che viaggiano nei secoli in un romantico tentativo di non farsi fagocitare dall'invincibile Leviatano che è il tempo.
Lei è un uomo che scrive di donne con grande sensibilità. Com'è riuscito a immedesimarsi nell'universo femminile?
Questo non lo so. In effetti ho più amiche che amici. La domanda mi fa pensare a Michelangelo Antonioni, il regista cinematografico della mia città (scomparso da sei anni ultranovantenne) considerato uno dei maestri del cinema italiano. Ho fatto la tesi su di lui e nelle ricerche svolte ho appreso che viveva in una famiglia di sole donne e che ha sempre dichiarato di avere imparato molto da loro e di apprezzare la psicologia femminile. Cosa che ritroviamo nei suoi film in cui la vera protagonista è la donna.
Forse l’aria di Ferrara trasmette questa sensibilità.
Al di là delle battute, anch’io condivido in pieno la vicinanza di Antonioni alle donne perché nel loro spirito colgo più ricchezza, più sincerità, più creatività, più solarità, più coraggio nelle avversità, nelle scelte, e soprattutto più spontaneità e passione. E più intelligenza.
A quale personaggio è più affezionato?
Penso a Lou. Fragile e forte nello stesso tempo. Passionale e capace per amore di sacrificare la propria purezza interiore. Forse anche perché con lei si è portati ad essere protettivi, e ciò è un esercizio importante per l’affinamento dello spirito maschile. O forse perché io tendenzialmente lo sono, protettivo.
Lei ha scritto molte poesie e il suo stile narrativo lo rivela. Quale forma letteraria predilige?
La poesia che tende a scardinare il reale, ma che lo racconta attraverso un’adeguata e ardita scelta lessicale come gli ispano-americani (Federico Garcia Lorca, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda per citare i tre più grandi). Nella narrativa moltissimi. Ma siccome devo essere un po’ meno evasivo, dico principalmente Fedor Dostoevskji, Cesare Pavese, Jean Paul Sartre, Albert Camus, Italo Calvino, Alberto Moravia, Lev Tolstoj, John Steinbeck, Elsa Morante, Giorgio Bassani. Di viventi, molto Sebastiano Vassalli, Orhan Pamuk, Haruki Hurakami, Margaret Mazzantini, la prima Banana Yoshimoto.
Quali opere letterarie o autori hanno influenzato la sua scrittura?
Non saprei. Amo molto Cesare Pavese. Il suo mondo mi ha sempre affascinato. In particolare come vive la natura che non manca mai di descrivere in modo tanto lirico con il suo peculiare stile essenziale, e di come vi emerga con forza il legame dei suoi personaggi. Penso che la relazione uomo-natura sia un aspetto che non debba mai essere assente nella letteratura. L’ambiente in cui viviamo è intimamente legato a noi stessi e Cesare Pavese ha la grande capacità di sussurrarcelo con grazia e forza allo stesso tempo.
Ma non c’è solo Cesare Pavese nel mio mondo letterario perché hanno un peso altrettanto importante Fedor Dostoevskii e Albert Camus. Il primo per la straordinaria capacità dell’analisi interiore, il secondo per il senso dell’essere e non essere quasi pavesiano per certi aspetti.
Quando preferisce scrivere, ha un luogo particolare, un metodo che segue ogni volta?
La cameretta di mio figlio Enrico che vive a Roma da anni (ha da poco presentato nella libreria Feltrinelli di Ferrara il suo secondo romanzo). Non ho metodi di sorta. L’unica costante è il fatto di interrompere la scrittura e riprenderla anche dopo qualche anno.
Ha dei progetti in lavorazione?
Sì. Un giallo che in realtà – tra un paio di delitti apparentemente insolubili e con il colpo di scena finale – è il pretesto per narrare invece il grande dilemma del commissario, come me appassionato golfista, diviso tra due donne, la moglie che ama e una giovane che ha amato anni prima che incontra e riama.
L’ho interrotto quando mi avete inviato le bozze e temo che lo riprenderò chissà quando.
Ma non sentitevi in colpa. Non lo sapevate.