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ImmagineGiorgio Astofli
INTERVISTA DELL'EDITORE ALL'AUTORE DI COINCIDENZE PLURIME


Buongiorno professor Astolfi. Dopo Sussurri dal tempo pubblichiamo un secondo romanzo, questa volta un giallo. Come mai questa scelta di genere?
Non lo so. Mi piaceva l’idea di provarci. Forse è stato nella lettura di “Neve”, di Orhan Pamuk, che mi sono reso conto della possibilità di associare, nella trama di un giallo, altri aspetti, da quelli sociali a quelli politici ed esistenziali e via dicendo. Una storia intrisa di altre storie. E così ci ho provato.   
 
Il Commissario è un giocatore di golf. Sappiamo che anche lei pratica questo sport. Il campo da golf è un terreno di riflessione anche per lei e le permette di trovare analogie con la vita?
Be' sì. Il golf è un gioco individuale in cui si è soli nel mezzo di un vasto campo irto di ostacoli, tutti di natura differente che richiedono immancabilmente un colpo (o soluzione) sempre diverso, da inventare sul momento. Come nella vita. Credo che ogni sport individuale abbia questa peculiarità. Il golf però su tutti, essendo il campo simbolo della vita, in cui si cammina verso una meta che non è mai la stessa (nel senso della distanza tra buca e buca) e che si cerca di vincere, che contiene – appunto – gli ostacoli da superare con le proprie abilità e/o sensibilità. Un gioco in cui il requisito fondamentale è la capacità di controllare stati d'animo e impulsi, soprattutto riguardo i movimenti del corpo perché sono innaturali e devono essere educati sia con l’esercizio fisico sia con la mente. Come ci si prepara alla vita.

Il suo libro è anche di denuncia verso il malaffare. Il romanzo è stato un espediente per poter esprimere le sue idee riguardo particolari argomenti o questi sono entrati nella storia come conseguenza della trama?
Direi che sono entrati nella storia come conseguenza della trama. Non credo che oggi abbia effetto la denuncia del malaffare perché ormai è diventato uno stile di vita (mi si conceda l’amara ironia) che tocca ogni settore del nostro sfortunato paese. Credo sia una guerra persa e che non esista soluzione. Nel romanzo mi limito a esprimere il mio disgusto per la violenza, per la sopraffazione, per la corruzione e per la vigliaccheria.  Perché la mafia è prima di tutto vigliaccheria autentica. Come si può leggere, non entro sia nei dettagli sia nel ruolo di chi denuncia perché – ripeto – è inutile e mi limito a raccontarne solamente i funesti effetti. 
 
La particolarità del romanzo è che si pone l’attenzione, non solo sulle indagini riguardanti degli omicidi, ma anche sulla cultura dei protagonisti che li mette in modo critico e profondo di fronte alle ingiustizie della vita e alla visione del mondo segnata dal dolore. Il dolore può cambiare effettivamente chi siamo o semplicemente ci permette di scoprire chi siamo davvero?
Entrambe le cose. Il dolore ci permette di scoprire chi siamo e contemporaneamente può cambiarci. È un percorso difficile da sostenere, ma ci conduce nella parte più profonda e più sensibile della nostra anima e ci dà l’esatta conoscenza di noi stessi e la misura dei nostri affetti, delle nostre azioni, dei nostri sentimenti; da lì poi inizia il processo di cambiamento (qualora ne nasca l’esigenza), e soprattutto ci fa capire che causarlo agli altri è l’azione più ingiusta che un essere umano possa compiere.
 
Nel romanzo si parla di coincidenze, che sono spesso presenti anche nella vita reale. Sono casualità o un preciso disegno a noi ignoto di un destino prestabilito?
La razionale tentazione di rispondere che le coincidenze non appartengano all’ignoto disegno di un destino prestabilito è grande, ma ciò non mi convince perché mi affascina di più pensare proprio a un disegno squisitamente misterioso, a noi ignoto, che le muova per costruire o modificare un ordine sino a quel momento autonomo e indipendente, e che trascendenza e divino non c’entrano assolutamente nulla: loro appartengono a una categoria da cui sono lontano. Ma essendo la questione talmente complessa, da indurre inevitabilmente a concludere che quel disegno prestabilito può solamente essere divino e non altrimenti, perché questa è la sola verità, io sostengo che mi piace così: il mistero e l’ignoto al posto del divino. In fondo siamo circondati dal mistero e dall’ignoto. E il mistero e l’ignoto affascinano di più di una fede consolidata volta innegabilmente a spiegare tutto solo secondo la volontà e l’agire della divinità.  
 
Mi consenta di farle una domanda alla Marzullo: sono le coincidenze che ci fanno credere in un disegno del destino o è questo disegno che crea le coincidenze?
In fondo è la stessa cosa. Se si crede che ci sia un destino preordinato, questo può anche essere soggetto a coincidenze. Nel caso contrario può crearle. Sembra il cane che si morde la coda, ma si pensi cosa sono realmente le coincidenze. Altro non sono che figlie impazzite, burlone, ciniche e benevole, del misterioso e ignoto disegno, che si inseguono, si scontrano e s’intrecciano in un’infinita serie di frangenti e di vite. O se si vuole sono gli eventi impazziti, burloni, cinici e benevoli, che inseguendosi, scontrandosi e intrecciandosi in un’infinita serie di frangenti e di vite disegnano un destino. Quale la verità? A cosa credere? Diciamo che mi affido a una sorta di personale idea di determinismo tout-court.
 
Il romanzo lega in modo molto forte l’amore e la morte in sfaccettature anche molto diverse fra loro. Il filo che le unisce è il dolore. Forse la morte (voluta) come soluzione è più facile che affrontare la sofferenza con una lotta lenta e lunga, ma senza violenza?
Edgar Lee Masters in  “Antologia di Spoon river”, scrive nell’epitaffio per Willam e Emily: C’è qualcosa nella morte che somiglia all’amore.  È bellissima l’analogia amore-vita che si consumano all’unisono lentamente, anno dietro anno, e si chiudono in  dolcezza dopo essersela data per l’intera esistenza. Questo è un amore normale. Un vero e umano amore come dovrebbe essere. Senza eccessi o ossessioni. Ma eccessi e ossessioni talvolta prendono posto nell’animo delle persone e le tengono in ostaggio. E ciò ha un solo nome: passione. E la passione può essere devastante. Anzi lo è sia che sopravviva sia che finisca. In entrambi i casi è un’alterazione dell’animo, della psiche, che lo mina piano piano (chiedo aiuto a uno psicologo). Io penso che la passione sia indissolubilmente legata all’aspetto fisico, cioè al sesso che attribuisce al corpo dell’altro il solo, unico e insostituibile senso della vita, e quando viene tolto si scatena la disperazione, il dolore incurabile e atroce, il desiderio di morte o della punizione con la morte a chi dopo aver dispensato gioia e estasi le nega per sempre. Per rispondere alla domanda, dico che la sofferenza per un amore finito si vince effettivamente con la lotta lunga e lenta perché ciò è nella dimensione umana, è dell’essere razionale; ma la passione appartiene alla sfera dell’irrazionale perciò la fine di un amore di quella natura è insostenibile e insopportabile. Con la passione si va oltre la ragione. 
  
Ha dei progetti in lavorazione?
Un’idea c’è. Staremo a vedere.  

Grazie per questo nuovo romanzo che oltre a essere un giallo avvincente consente di trarre molti spunti di riflessione su vari argomenti, permettendo al lettore di andare oltre.



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